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IL LINGUAGGIO DEI PICCOLI

Quelle 25 parole da sapere a 2 anni

Il test sul vocabolario dei bimbi che rivela

la presenza di problemi di apprendimento

MILANO - Basta un semplice test di dieci minuti per capire se, una volta adolescente, il bambino avrà difficoltà di apprendimento o se la sua scarsa capacità di imparare le parole non nasconda piuttosto patologie più gravi come autismo e sordità. A metterlo a punto sono stati gli esperti del Bryn Mawr College in Pennsylvania, guidati dalla professoressa Leslie Rescorla, che hanno stilato un elenco di 310 parole, chiedendo ai genitori di spuntare ogni vocabolo che sentivano ripetere dal figlio (anche se magari la pronuncia non era perfetta o se era usato in un contesto diverso dal suo reale significato).

 

I TERMINI FONDAMENTALI - In genere, le parole pronunciate a due anni sono fra 70 e 225, ma venticinque di queste (mamma, papà, ciao, giocattoli, cane, gatto, bambino, latte, succo di frutta, palla, sì, no, naso, occhio, banana, biscotto, macchina, caldo, grazie, bagno, scarpa, cappello, libro, andati, di più) devono comparire per forza nel vocabolario del piccolo, perché sono quelle considerate base e la loro mancata conoscenza potrebbe essere indice di qualche problema di apprendimento assai più grave di un semplice «ritardo linguistico». Stando ai risultati presentati nel corso dell’annuale meeting di Vancouver dell’American Association for the Advancement of Science, il 20% dei bambini di 2 anni sarebbe linguisticamente più indietro rispetto alla maggior parte dei coetanei, anche se i genitori dovrebbero cominciare a preoccuparsi sul serio nel caso in cui il figlio fatichi ad apprendere nuovi vocaboli entro i primi 30 mesi di vita (2 anni e mezzo) o non conosca più di 50 parole a tre anni. In questi casi è perciò necessario ricorrere ad un terapista del linguaggio, che sia in grado di stabilire se non vi siano patologie che ostacolino l’apprendimento delle parole e che aiuti il piccolo a sviluppare a pieno la sua capacità conoscitiva, così da non avere poi problemi di inserimento nella società una volta adulto.

TEST SEMPLICE - «Nel nostro studio – ha spiegato la professoressa Rescorla al Guardian – i bambini con un ritardo linguistico hanno poi recuperato la differenza in modo variabile, anche se dopo i 17 anni i miglioramenti sono stati significativamente più bassi. E anche se molti riescono a coprire il gap, il problema è che non sappiamo a priori chi di loro riuscirà davvero a farlo, ecco perché questo test può essere utile: tutto quello che serve è una matita e un genitore attento. Quanto poi alle modalità di apprendimento, anche questo è un fattore da considerare, perché è stato dimostrato da un numero sempre crescente di studi che i bambini sviluppano più rapidamente la loro capacità linguistica se vengono coinvolti in conversazioni reali, anziché lasciati da soli a guardare i programmi televisivi destinati alla loro età. Ma in questo caso non c’entra l’effetto negativo della tv sul linguaggio infantile quanto, piuttosto, la capacità che hanno molti bambini di imparare vocaboli ed espressioni nuove proprio grazie all’interazione diretta con gli adulti».

Simona Marchetti20 febbraio 2012 (modifica il 21 febbraio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Se il rifiuto della scuola non è soltanto timidezza

Bambini e adolescenti: lo sviluppo                                                                     dei disturbi ansiosi dipende molto                                                                           dalla qualità del legame con i genitori

 

Possibile che un bambino di neppure dieci anni soffra di undisturbo d'ansia? Certo, e non è neppure un'eventualità troppo remota: secondo i dati raccolti di recente su circa 3500 bambini di nove anni da Francesca Neri e Renata Nacinovich, della Clinica di neuropsichiatria dell'infanzia e l'adolescenza dell'Università di Milano Bicocca presso l'ospedale San Gerardo di Monza, circa il 10 per cento dei ragazzini presenta tratti d'ansia.

 

La ricerca, che ha coinvolto sei Cliniche di neuropsichiatria infantile italiane ed è la più ampia mai svolta per valutare la diffusione dell'ansia fra i preadolescenti, dimostra che in questa fascia d'età la frequenza dei disturbi è molto simile fra maschi e femmine. Inoltre, sono stati identificati i fattori che più facilitano la comparsa del problema. Se infatti è ormai indubbio il peso della genetica, così come il ruolo di eventi negativi precoci (dall'abbandono, ai lutti in famiglia), lo studio italiano punta il dito anche contro altri elementi che hanno un impatto non irrilevante: i bambini con genitori separati o single hanno, ad esempio, una probabilità del 50 per cento più alta di sviluppare ansia, ma sono a rischio più elevato pure i bimbi di famiglie numerose (con più di 4 membri) o i figli di donne che non lavorano.

«L'ansia dipende molto dall'insicurezza e dalla "bontà" del legame di attaccamento con i genitori — spiega Francesca Neri —. Esistono coppie separate che riescono a dar vita a una "coppia genitoriale" comunque efficace, coesa, i cui figli non si sentiranno mai insicuri e, d'altra parte, esistono genitori pessimi nonostante il matrimonio. Tuttavia, le coppie brave a separarsi "bene" non sono né la norma né la maggioranza, per cui sui grandi numeri i figli di separati, divorziati e single risultano più a rischio d'ansia». «Quanto ai bimbi con molti fratelli e sorelle, — prosegue Neri — è probabile che soffrano di maggiori insicurezze; le madri che non lavorano, infine, avendo investito molto sui figli forse trasmettono loro un carico maggiore di preoccupazione. Di certo, il contesto in cui vive il piccolo è fondamentale, per questo parliamo sempre e a lungo con i genitori dei nostri pazienti». Nei bambini e negli adolescenti i disturbi d'ansia più comuni sono l'ansia da separazione (che insorge specificamente nell'infanzia), l'ansia generalizzata, il disturbo di panico, le fobie specifiche, la fobia sociale. Alcune paure sono normali e fisiologiche, e scompaiono con la crescita: è il caso ad esempio dell'angoscia nei confronti dell’estraneo, caratteristica dei piccoli di otto-nove mesi; delle paure degli animali grossi e divoratori, verso i due-tre anni, o dei piccoli animali come insetti e ragni, caratteristica intorno ai quattro-sei anni. Altrettanto frequenti e del tutto nella norma sono una transitoria paura del buio o della scuola; in adolescenza sono usuali (e passeggeri) i timori relativi al corpo, alla sua forma e integrità, alla normalità dei caratteri sessuali secondari.

Prendiamo, ad esempio, il tipico caso del bimbo che non si stacca dalla mamma quando deve andare a scuola: «È del tutto normale che un bambino faccia storie per qualche tempo nella fase di inserimento all'asilo nido e alla scuola materna — osserva Renata Nacinovich —. Ma se mesi dopo l'inizio della scuola ogni mattina è ancora una tragedia, allora è il caso di valutare se non ci sia un’ansia da separazione o correlata alla scuola. E successivamente, alle elementari, alle scuole medie o alle superiori, il rifiuto scolastico o "fobia scolare" può essere legata a questo tipo di disturbo d'ansia o essere associata alla fobia sociale, che "costringe" il bambino o l'adolescente a evitare tutte le situazioni in cui teme di mostrare le sue incapacità e di essere giudicato, umiliato.

La fobia sociale è abbastanza comune fra i bambini ed è molto diversa dalla timidezza: un bimbo timido non prende l'iniziativa per giocare, ma riesce a stare con gli altri se viene sostenuto da un’educatrice o introdotto da un amichetto; il bambino che soffre di fobia sociale non si convince con nulla». Una recente ricerca statunitense su oltre 10 mila adolescenti dai 13 ai 18 anni conferma che timidezza e fobia sociale non corrono il pericolo di essere confuse, né c'è il rischio tanto paventato da molti di "curare la timidezza": solo il 12 per cento dei timidi rispetta i criteri per la diagnosi di fobia sociale, e c'è un 5 per cento di non timidi che invece è fobico. Ma quali sono i campanelli d'allarme a cui i genitori (soprattutto quelli "a rischio", secondo i parametri individuati dai ricercatori italiani) devono prestare attenzione? «Bisogna insospettirsi se il bambino fa molta fatica ad adattarsi ai cambiamenti e manifesta segnali evidenti di disagio: sintomi psicosomatici ricorrenti come mal di testa o mal di pancia, rifiuto a uscire o andare a scuola, difficoltà a dormire, tendenza a isolarsi mascherando il rifiuto sociale con interessi "solitari" come i videogiochi — dice Nacinovich —. Occorre intervenire presto, perché quando i comportamenti condizionati dall'ansia si cronicizzano sono sempre più complicati da eliminare». Purtroppo, con i più piccoli è molto facile equivocare e non rendersi conto che certi atteggiamenti potrebbero nascondere un problema: accade, ad esempio, che i genitori ritengano solo molto tranquillo e magari un po' solitario un bambino che in realtà ha una fobia sociale, allarmandosi davvero soltanto quando il figlio non vuole più andare a scuola. Inoltre, molti piccoli somatizzano l'ansia, quindi prima di pensare a un disagio emotivo i genitori spesso li sottopongono a innumerevoli visite pediatriche. «Una volta arrivati alla diagnosi, in prima battuta si sceglie un lavoro di sostegno psicologico o, se è necessario, una psicoterapia a orientamento psicodinamico, coinvolgendo sempre anche i genitori: a volte basta "trattare" mamma e papà per veder stare bene il figlio. Ai farmaci si ricorre se il disturbo è molto invalidante, ad esempio se il bambino o l'adolescente non frequenta più la scuola, non esce. Ma i farmaci non si usano mai da soli, o come prima scelta» conclude Neri.

Elena Meli19 gennaio 2012 (modifica il 26 gennaio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA



 

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